XXX.

Il Romanticismo

1. Romanticismo europeo e Romanticismo italiano

Per la nascita del Romanticismo italiano non si può fissare una data, come non si può fissare per nessun movimento letterario che abbia alle spalle un largo movimento degli spiriti e della civiltà. Tuttavia il giro di anni nei quali cade l’affermarsi di una tendenza che si svolgerà poi a poco a poco, ma con un processo sicuro che appare perfin vorticoso a guardarlo da lontano, può essere sicuramente fissato: sono gli anni che vanno dal programma manzoniano degli Inni sacri (1812) alle discussioni pro e contro il Romanticismo che presero subito il nome di battaglia classico-romantica (1816).

Ma qualunque sia la data che si voglia fissare per l’affacciarsi e il maturarsi del Romanticismo in Italia, è fondamentale avvertire come, insieme alle svolte di gusto, di sensibilità, di scelte letterarie e morali, ideologiche e civili che furono rappresentate sul finire del Settecento dal movimento preromantico, alla definizione del Romanticismo italiano abbia concorso l’aggancio profondo e vivido di esso con il Romanticismo europeo. E se anche nel Romanticismo italiano continuarono a maturare ed ebbero vita nuova non pochi elementi della storia culturale italiana dall’illuminismo allo stesso neoclassicismo, resta un punto di riferimento essenziale quell’aggancio, quell’attingere a fonti largamente europee che caratterizza l’apertura romantica.

Il primo avvertimento cosciente delle posizioni romantiche si può considerare la dichiarazione che Friedrich Schlegel rese pubblica nel numero 2 dell’anno 1798 della rivista tedesca «Athenaeum»: la poesia romantica – egli diceva – è «una poesia universale progressiva che... in contrasto con la compiutezza della poesia antica... è tuttora in divenire, anzi, ha come suo carattere di restare sempre in divenire, di non poter essere compiuta mai». Chiaramente egli intendeva affermare cosí una diversa concezione filosofica della poesia e del mondo, una concezione che si opponeva, nel nome della creatività eterna dello spirito umano e della ricerca di una perfettibilità infinita, alla visione classica della vita stabilita in ordini precisamente definiti, serena, armonica. È sintomatico, a testimoniare dell’ampiezza europea delle esigenze romantiche, che in quello stesso anno apparivano in Inghilterra le Ballate liriche di Coleridge e di Wordsworth che si presentavano con le caratteristiche di un rivoluzionario fatto poetico, intese com’erano «a dare colore di realtà al soprannaturale per la verità delle emozioni espresse e a rilevare il mistero nascosto anche nelle piú umili cose di ogni giorno». Sono questi, uno in direzione teorica e filosofica, l’altro in direzione pratica e poetica, i concreti manifesti del Romanticismo europeo. Ma essi non nacquero dal nulla, e come dietro l’esperienza di Coleridge e Wordsworth sta quello svolgimento della poesia preromantica inglese che va dai temi cimiteriali e patetici di Young e di Gray alla ingenuità primitiva e sentimentale della poesia ossianica, cosí dietro la dichiarazione di Friedrich Schlegel sta il pensiero dei letterati e ideologi tedeschi Johann Georg Hamann (1730-88) e Johann Gottfried Herder (1744-1803), studiosi ed esaltatori della poesia popolare, dell’arte primitiva, della poesia naturale (Naturpoesie), quella poesia cioè che esprime direttamente l’anima popolare nei suoi sentimenti ingenui, nelle sue leggende, fuori da qualsiasi modello tradizionale, specie di quelli classici, estranei alla sua mentalità, al suo spirito, alla sua religione. Costoro propugnavano in questo modo la necessità di un’arte nuova, di cui i tedeschi dovevano farsi i fondatori.

E non tardò a formarsi in Germania quel gruppo di giovani scrittori e poeti che prese il simbolico nome di Sturm und Drang (tempesta e assalto), quasi a dichiarare apertamente il disprezzo delle armoniche, serene proporzioni dell’arte classica, il rifiuto deciso e totale delle regole tradizionali, la volontà di una poesia dei sentimenti, delle passioni, tutta spontaneità, totale liberazione della fantasia dal peso delle costrizioni morali, religiose, letterarie. Il movimento degli Stürmer-und-Dränger, di cui fecero parte da giovani anche grandi poeti come Goethe e Schiller i quali ebbero poi svolgimenti ben complessi fino a ricongiungersi con altri, sereni e a loro modo classici, orizzonti, va considerato il momento genuino del protoromanticismo europeo, cui non fu errato avvicinare in Italia lo slancio dirompente, ribelle, del mondo interiore di un Alfieri, anche se questi mancava di quello spirito religioso che invece per gli Stürmer-und-Dränger costituiva un’arma di lotta contro l’illuminismo e in genere l’età del razionalismo.

Ma al di là di questi antecedenti protoromantici è appunto nelle opere di August Wilhelm Schlegel, Corso di letteratura drammatica (1808), e di Friedrich Schlegel, Storia della letteratura antica e moderna (1815), che giunge a piena maturazione quel processo di distinzione della nuova poetica romantica da quella antica classica che nella dichiarazione del 1798 aveva avuto la sua prima formulazione. Gli Schlegel oppongono puntualmente alla serenità, all’armonia, all’equilibrio, alla sensualità e all’inconsapevolezza dei classici, ai modelli che dalle opere di questi ultimi si sono ricavati, al susseguente criterio dell’imitazione, alla mitologia degli antichi, l’inquietudine, la drammaticità, la nostalgia, la sentimentalità e la riflessione dei moderni, l’urgenza di libertà da ogni modello e da ogni regola, lo spirito cristiano segnato dal tormento del peccato e dall’ansia della redenzione. Per essi è proprio il Cristianesimo ad aver operato una rottura totale nella storia dell’umanità: la grande riserva dello spirito moderno non potrà pertanto essere piú il mondo classico, ma dovrà essere il mondo medievale, e la letteratura trarrà materia di ispirazione dalle nuove leggende ch’esso diffuse, dalla nuova epica ch’esso fondò, dalla nuova religione di cui fu impregnato. Nell’elaborare queste posizioni gli Schlegel sviluppavano in buona misura una distinzione di Schiller tra poesia ingenua degli antichi e poesia sentimentale dei moderni, una distinzione che troverà consenziente, per esempio, Leopardi, che pure prenderà posizione contro la poesia romantica.

È che nella determinazione della teoria romantica questa distinzione tra la poetica antica e la poetica moderna tendeva a materializzarsi, specie in August Wilhelm Schlegel, in una distinzione piú generale tra due tipi eterni di poesia, quella romantica, fondata sulla rappresentazione diretta dei sentimenti e della fantasia, vivente in Omero come in Eschilo, in Dante, in Shakespeare, in Ossian, e quella classica, bisognosa di modelli e di regole, come nei latini e nei poeti francesi del Seicento. Nei romantici si veniva cosí a determinare una discrepanza tra una proposta concernente il modo di operare del poeta moderno e un modo di intendere la storia della letteratura e della poesia. Questa veniva a configurarsi come una lotta eterna, dagli esiti alterni, tra genuinità della fantasia e dei sentimenti e peso dei modelli e delle regole. Avvenne cosí che la tendenza alla fondazione di una poesia rispondente ai bisogni dell’uomo e della società moderni si sovrappose alla ricerca della vera poesia e tale fu considerata solo quella che nascesse dalla libera ispirazione, dal rifiuto dei modelli, dal ripudio degli strumenti classici della poesia e del giudizio su di essa, e falsa quella che mediava la rappresentazione per mezzo di tutto l’armamentario fornito dalla tradizione letteraria. La ricerca filosofica dell’autonomia dell’arte si confuse con quella di un’arte autonoma, cioè nuova, originaria dell’anima moderna. Un equivoco di fondo che si protrasse per tutto lo svolgimento del Romanticismo, a cominciare dalle battaglie che i romantici dichiarati ingaggiarono contro i sostenitori della tradizione, e al quale furono connessi tutti i problemi che vennero nascendo, del giusto rapporto tra letteratura e pubblico, dell’eredità nella nuova poesia della tradizione antica e recente, del senso politico e ideologico delle posizioni che si venivano assumendo.

Nell’urgere delle polemiche e delle discussioni una chiara coscienza di tale situazione i romantici non ebbero che a sprazzi. Si spiega cosí l’influenza che sul Romanticismo tedesco ebbe il maggior rappresentante dell’illuminismo tedesco (Aufklärung), Lessing; si spiega perché Byron, il piú esasperato dei romantici inglesi, potesse prendere le difese del classicista Pope; si spiega infine come nel Romanticismo italiano rinverdissero e si sviluppassero posizioni e problemi che erano stati vivamente sentiti negli ambienti illuministico-sensistici.

Alla diffusione e all’affermazione del Romanticismo in Europa, e specie in Italia, diede un contributo fondamentale la scrittrice francese Germaine Necker, baronessa di Staël-Holstein, alla base della cui azione si collocano, accanto ad esigenze culturali e letterarie, anche esigenze chiaramente politiche. Lo si vede già nel suo libro La letteratura considerata nei suoi rapporti con le costituzioni sociali (1800), del quale sarebbe difficile non valutare le componenti che provenivano dal tessuto stesso della cultura illuministica cosí bisognosa di un incontro delle manifestazioni dell’intelligenza con le società cui si rivolgono, ma che si fa interamente e polemicamente palese nel libro Della Germania (1810), nel quale la Staël, di fronte all’affermarsi del gusto neoclassico dell’età napoleonica, denunciava i pericoli di inaridimento che derivavano dall’assumere come unici i modelli del grande classicismo francese, esaltava la libertà creatrice dello spirito, proclamava l’urgenza di una poesia dei sentimenti, dell’ispirazione, dell’entusiasmo, e additava ai francesi lo slancio ideale della nuova letteratura tedesca. Questo libro, che con la Corinna o dell’Italia diveniva presto il testo fondamentale del Romanticismo europeo e anche italiano, fu proibito e distrutto in Francia e si diffuse nell’edizione londinese del 1813. In esso si trovano gli stessi elementi della posizione illustrata compiutamente dallo Chateaubriand nell’opera Genio del Cristianesimo (1802), dove egli esponeva il suo programma di un’epica cristiana, fatta fertile dai valori religiosi, ideali, sentimentali sparsi in Europa dal Cristianesimo. Ebbene lo Chateaubriand, che quell’opera composita rivolgeva a Napoleone invitandolo a ristabilire la tradizione cristiana della Francia al di là dei furori della rivoluzione, si fece in seguito, come la Staël, nemico acerrimo di Napoleone e fu infine duro sostenitore della Restaurazione. Questa vicenda di Chateaubriand può essere simbolo delle contingenze in cui il Romanticismo si maturava e prendeva una precisa configurazione. Esigenza di una libertà interiore ed esteriore, richiamo alle condizioni primigenie dell’animo umano combinate con i portati delle civiltà e delle società, riconoscimento e insistenza su quel che di misterioso e religioso si coltiva nel profondo dell’uomo contro le filosofie della ragione, riaggancio alla complessa storia dell’umanità non solo nelle sue zone di luce, ma nelle sue zone di ombra. Non v’è dubbio che in tutto ciò si trovano potenti contraddizioni: libertà dell’individuo significa esaltazione dei suoi istinti, delle sue private esigenze, anche religiose; da queste ultime deriva il richiamo al Medioevo, che pure fu età di costrizione politica e sociale dell’uomo, di barbarie e di superstizione; nello stesso tempo in cui ben si comprende come nessuna libertà dell’individuo sia possibile sotto la tirannide assolutistica, si tende a riconsiderare la religione come base cementatrice delle società umane. Come sul piano politico accade che Napoleone, mentre conquista e soggioga con i suoi eserciti l’intera Europa, porta ai popoli di essa l’ideale della libertà dalle tirannidi domestiche e l’ansia di rigenerazione nazionale, cosí accade che nel campo della cultura l’urgente riaffermazione della forza creatrice dello spirito si trasforma in riidoleggiamento delle istituzioni culturali-religiose del Medioevo. Solo gli spiriti piú grandi, è stato sottolineato, saranno capaci di risolvere in sé, nelle proprie opere, le spinte rinnovatrici e rivoluzionarie della nuova cultura romantica con gli elementi, le tendenze stesse della visione classica della vita e della storia, in una visione diversamente armonica: Goethe, Manzoni conducono il proprio Romanticismo sotto il cielo di un nuovo equilibrio, al punto che si discuterà della possibilità di iscrivere questi grandi scrittori sotto il segno della civiltà romantica. Spiriti piú deboli, o spiriti piú direttamente colpiti dal furore di rivolta che il Romanticismo portò contro la concezione illuministico-razionalistica della vita, finirono col puntare tutto sul mistero del mondo, sullo scatenamento della fantasia, sull’arbitrio e sull’anarchia per poi ricoverare magari tutto questo sotto la grande ala di una giustificazione religiosa e mistica. Ma occorrerà dire che nella stessa storia di quei grandi, come in quella di tanti altri interpreti della letteratura europea della prima metà dell’Ottocento, in Novalis e in Keats, in Hugo e in Leopardi, lo scontrarsi di quelle grandi forze ideali, culturali e spirituali ha avuto il suo proprio luogo, il suo momento. E la storia di un grande movimento spirituale è fatta appunto di tali momenti. I quali saranno riscontrabili in tutte le maggiori personalità e nel tessuto stesso di tutte le culture nazionali europee degli anni iniziali del secolo XIX: nel russo Puškin come nel polacco Mickiewicz, nel tedesco Novalis come nell’inglese Shelley, nello spagnolo Espronceda come nell’ungherese Petőfi.

Non sarà dunque errato considerare il Romanticismo come una profonda svolta nella storia della civiltà europea, di cui i programmi letterari, di poetica, sono solo un aspetto e spesso non il piú indicativo. Non sarà possibile pertanto porre i programmi letterari del Romanticismo da una parte e quelli dei classicisti dall’altra, configurandoli in una lotta senza quartiere: ché, come avviene per tutti gli altri aspetti della civiltà dei primi decenni dell’Ottocento, la nuova letteratura è animata da spiriti che hanno diversa provenienza e contraria tendenza, ma che hanno in comune la condizione essenziale di derivare da quel grande crogiuolo di possibilità che s’aprí dinanzi all’Europa all’inizio del XIX secolo.

Per restringerci al campo piú particolare della letteratura e delle proposte di poetica che allora si affacciarono, in modo da fissare bene nella mente i centri intorno ai quali ruoteranno le polemiche d’apertura, come anche i successivi svolgimenti, si potrà dire che i romantici s’oppongono prima di tutto alle regole quali si pensava avesse fissato una tradizione che faceva capo ad Aristotele attraverso le meditazioni, discussioni, tentativi di sistemazione che il Cinquecento italiano e il Seicento francese principalmente avevano elaborato: regole concernenti il modo di comporre opere letterarie, dall’epica alla tragedia (importante la discussione sul rispetto delle tre unità di luogo, di tempo e d’azione), dalla lirica alla commedia, dalla novella al romanzo. Rifiutano pertanto i romantici le forme retoriche elaborate dalla tradizione; rifiutano ogni accademismo, ogni passiva ubbidienza alla norma scolastica; rifiutano la concezione dí un bello astratto su cui misurare i nuovi fatti artistici; rifiutano l’esemplarità tradizionale del mondo greco-romano e quindi attingono dal Medioevo cristiano fatti, leggende, personaggi, cosí come alla mitologia classica sostituiscono le credenze religiose del Cristianesimo o, specie nel nord dell’Europa, le leggende religiose autoctone. Fortissimi poi il gusto per l’esotico, fosse esso quell’oriente nel quale pareva loro che l’uomo avesse conservato misteriosi rapporti con la natura, o fossero i popoli primitivi del nuovo mondo visti piú vicini alle origini stesse dell’umanità.

Non andrà infine ignorato che dietro agli atteggiamenti letterari e culturali assunti dai romantici si trovano precise tendenze e anche organici sistemi filosofici. Grandissimo rilievo ha per tutta la filosofia romantica la figura di Immanuel Kant (1724-1804), che assegnò alla filosofia il compito di indagare sui poteri e sui limiti della ragione umana (criticismo) e dal cui pensiero discendono, in diverse prospettive e con diversi atteggiamenti, filosofi come Fichte, come Schleiermacher, come, soprattutto, Schelling, che nel suo sistema idealistico trascendentale rifiuta di concepire la poesia come imitazione della natura e la esalta invece come libera creazione individuale, formulando una teoria di assoluta autonomia dell’arte, e come Hegel, che con la sua riduzione di tutto il reale all’idea («tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale») e con l’individuazione del processo dialettico di essa (tesi, antitesi, sintesi, ovvero idea in sé, natura, spirito, quest’ultimo nelle sue forme soggettiva, oggettiva o sociale, assoluta) si propone come il sistematore del pensiero idealistico-romantico, da cui prenderanno le mosse i successivi sviluppi del pensiero europeo. In Italia il grande antesignano delle concezioni romantiche della storia e dell’arte (della prima come enorme bagaglio, retroterra di ciò che l’uomo è nel presente, campo totale e unico delle sole conoscenze possibili all’uomo, quelle storiche, della seconda come distinta dalla ragione quale strumento di conoscenza) viene considerato il Vico, del cui studio, come si è accennato a suo tempo, si nutrirono, attraverso la diffusione che ne fecero gli esuli napoletani del ’99, uomini diversi come Foscolo e come Manzoni.

2. La polemica romantica

Se per avvertire l’influenza, o almeno il diffondersi, in Italia delle posizioni romantiche europee non occorre aspettare il 1816, certo è che solo in quell’anno il problema della «poesia romantica» esplose presso di noi. È alla Staël, come si è accennato, che si deve il sorgere della polemica. La Staël aveva trovato nella Germania l’esempio di un rinnovamento ideale della letteratura da additare ai suoi connazionali in un’età di imperante, ufficiale neoclassicismo: in Italia trovò il modello di una condizione umana patetica, sentimentale, scoperse la malinconia delle rovine e un grande passato artistico capace di volgere gli animi alle piú squisite finezze: cosí nacque la Corinna (1807). Questo libro è la testimonianza del sincero affetto che la scrittrice francese ebbe per l’Italia. La condizione che troviamo alla base della lettera, pubblicata nel 1816 sulla milanese «Biblioteca italiana», Sulla maniera e sull’utilità delle traduzioni è la sostanziale divaricazione che la Staël vedeva presso di noi tra vita e cultura.

Con le sue aperture e con i suoi limiti questa famosa lettera condizionerà lo svolgimento della polemica e in buona parte (fuori cioè dalle punte delle personalità maggiori, il Manzoni, il Leopardi, che perverranno, sia intellettualmente sia poeticamente, a ben piú complesse sintesi dei materiali apprestati loro dalla civiltà primo ottocentesca) dell’intera letteratura italiana dell’età romantica. Limite principale, e grave, è che, per quanto la Staël stessa confusamente lamentasse che gli italiani non conoscevano le conquiste dell’idealismo tedesco ed erano filosoficamente fermi all’illuminismo e alle sue derivazioni sensistiche e ideologistiche, tuttavia essa stessa dell’idealismo tedesco non aveva chiara nozione e il Romanticismo tedesco le era noto nelle impostazioni piú deboli e ambigue di August WilhelmSchlegel compendiate nel Corso di letteratura drammatica. In quella lettera ella intendeva incitare gli italiani a prendere contatto con culture diverse da quella tradizionale, culture fondate su un rapporto vivo col popolo, e pertanto consigliava di tradurre dalle letterature inglese e tedesca, di attingere piuttosto ad esse che non alle letterature classiche oramai lontane dalla coscienza dei lettori, di liberarsi della mitologia a questi ultimi totalmente estranea, di invogliarsi di una essenziale verità di concetti e di una disadorna semplicità dello stile. Questo invito ella fondava sulla distinzione di poesia classica, dotta e regolistica, e poesia romantica, ingenua e libera: aggiungendo (e anche complicando prospettive diverse) che la prima era prodotto dei popoli meridionali, la seconda dei settentrionali, la prima senz’altro degli antichi, la seconda dei moderni, la prima aveva per contenuto le istituzioni greche e romane, la seconda la cavalleria. Ingenua materializzazione, contrapposizione tra epoche e contenuti, piuttosto che tra atteggiamenti poetici del presente, che derivava dalla già avanzata materializzazione compiuta da August W. Schlegel.

La lettera della Staël venne presentata nella «Biblioteca italiana» nella traduzione del Giordani: il quale anche rispose alla scrittrice, rifiutando il suggerimento di rivolgersi alle letterature nordiche perché troppo lontane dall’educazione, dalla sensibilità, dalla natura stessa del temperamento italiano (la letteratura dei nordici «innestata contro natura alle nostre lettere, ne ha fatto scomparire quel pochissimo che vi rimaneva d’italiano», scriveva alludendo evidentemente al preromanticismo), incitando anzi gli italiani a darsi seriamente allo studio dei propri classici, latini, greci e italiani, concordando solo su di un punto con il discorso della Staël, cioè sull’inutilità di troppa letteratura che si faceva in Italia, sulla «miserabile infinità de’ cattivi versi che ammorba l’Italia... Io fo ragione che in Italia la metà almeno di quelli che sanno leggere, presumano di far versi. Non sapranno altro al mondo; ma si credono poeti... Ogni città, ogni borgo, ogni terricciuola d’Italia tiene accademie: per far che? per esercitarsi nella lettura e nell’intendimento de’ classici? per istudiare la storia naturale o la civile del proprio paese? per trovar modo a migliorarne l’agricoltura e le arti? per far esperienza di fisica e di chimica? per discorrere sulla storia, e cavarne insegnamenti alla vita civile? per rinnovare con lodi la memoria e l’esempio de’ nostri buoni maggiori? No no, queste sarebbero miserie, non degne di begli spiriti. Per recitare sonetti, lodi, madrigali, elegie. Ma sopra tutto sonetti: questi sono il pane cotidiano, e la delizia degl’intelletti. Ma, per tutti gli dei, che farà mai al mondo un popolo di sonettanti? oh liberiamoci una volta da questa follia».

Abbiamo riferito questo passo della risposta del Giordani alla Staël perché mostra non solo la vigorosa e generosa mente del rappresentante maggiore dei classici italiani (del che s’è già detto nel cap. XXVIII, p. 129), ma perché essa è indicativa di come questi ultimi non difendessero semplicemente una posizione arretrata e reazionaria, ma anzi si richiamassero esplicitamente alle piú profonde e rinnovatrici istanze dell’illuminismo italiano del Settecento, cui, del resto, si richiameranno per piú aspetti gli stessi romantici. E neppure si può dire che essi rifiutassero un contatto piú attivo – come pensava in parte invece il Giordani – con le letterature nordiche, ché essi semmai insistevano sul fatto che la cultura italiana era tutt’altro che rimasta priva di tali contatti e che nel Settecento, insieme all’illuminismo francese, era penetrato in Italia il gusto per la poesia primitiva, per Shakespeare prima di tutto, poi per Ossian e in genere per la poesia preromantica. Se il Giordani tendeva a deprimere l’importanza del preromanticismo, ciò avveniva in lui soprattutto per ragioni ideologiche, perché egli vedeva in esso il riflusso di quello spirito religioso che considerava sorpassato dalla civiltà umanistico-rinascimentale e poi illuministica.

Ma se nel rispondere alla Staël il Giordani mostrava una misura e un sentimento civile caratteristici della sua personalità, e se altri che presero posizione in difesa del classicismo non furono da meno, come Giuseppe Londonio, Giuseppe Nicolini, Giovanni Gherardini (che procurò nel 1817 la traduzione italiana del Corso dello Schlegel), lo stesso Monti, grande amico personale della Staël e autore di quella difesa della mitologia che è il poemetto Sermone sulla mitologia, non mancarono accuse violente, risposte accese e perfino inurbane di molti che s’assunsero la difesa della tradizione italiana sia sulle pagine della «Biblioteca» sia su altri giornali e giornaletti spesso angustamente e altrettanto rozzamente campanilistici come l’«Accattabrighe» del Caleppio.

In difesa della Staël insorse allora una fitta schiera di giovani intellettuali: tra i quali andrà per primo ricordato il torinese abate Ludovico Di Breme (1780-1820), che intervenne da principio nella polemica con lo scritto Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani (1816) e poi con altri scritti, come quello sul Giaurro di Byron che apparirà sul «Conciliatore». Il Di Breme, che fu legato di amicizia con la Staël e con gli uomini della cerchia di Coppet, la residenza svizzera della Staël, autore anche di un incompiuto romanzo, Il romitorio di Sant’Ida, caratteristico per l’intensità dei toni patetici, sostiene in quello scritto che non solo è possibile, ma necessario inserire il «genere romantico» nel tronco della tradizione italiana. Ma egli è incerto sull’uso del termine romantico (ora inteso con riferimento ai romanzi cavallereschi, cioè in senso epico-narrativo; ora in senso etnico-linguistico, come meridionale; ora in senso storico, come medievale-moderno), mostrando in ciò di risentire influenze varie, da quelle del Sismondi (il ginevrino autore dell’opera Della letteratura del mezzogiorno d’Europa, 1813, un altro libro di gran diffusione per la fondazione delle tendenze culturali romantiche in Italia), fino a quelle del Settecento italiano, dal Gravina al Cesarotti, dal Vico all’ambiente del «Caffè». Su questa via, di un deciso aggancio del Romanticismo alla cultura italiana del Settecento (Vico, Baretti, «Caffè»), si pone un altro vigoroso polemista romantico, Pietro Borsieri (1786-1852), nelle Avventure letterarie di un giorno (1816). Borsieri era un giovane vivacissimo, molto stimato dal Foscolo; prese parte attiva alla vita politica; ne ebbe carcere ed esilio, e la vita, nonché le possibilità di operare nella letteratura come i suoi inizi facevano sperare, interamente stroncata. Nelle Avventure egli cercava di collocare sotto il segno romantico le piú vivide opere della religiosità e della fantasia della letteratura italiana, dalla Commedia al Furioso, che gli parevano appartenere «a tal genere di poesia che non ha verun modello nell’antichità greca e latina; e che essendo tutto animato dalle idee dello spiritualismo, del cristianesimo e del genio cavalleresco, racchiude appunto in se stesso i tre principali elementi della poesia romantica». Ma poi procedeva a chiarire concreti problemi di poetica: l’uso della lingua e dei dialetti, la necessità di fondare un teatro comico italiano, la tendenza moderna alla narrazione romanzesca, la compilazione di buoni giornali.

La tendenza ormai inarrestabile a convertire tutta la discussione sulla poesia romantica in una precisa proposta di poetica moderna si attua compiutamente nella Lettera semiseria di Grisostomo al figlio (pure 1816) del Berchet, della cui figura di polemista e di poeta diremo unitariamente nel prossimo paragrafo. Ma questo processo di individuazione prosegue nelle pagine del «Conciliatore», il giornale che per 118 numeri apparve a Milano dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre 1819 e che radunò il Di Breme, il Borsieri, il Berchet ora nominati, e il Visconti, il Maroncelli, il Porro, il Confalonieri, nonché tra gli uomini della generazione precedente il Pecchio e il Romagnosi. L’idea del «Conciliatore» nacque da principio dall’incontro e dalla confluenza di due gruppi di intellettuali e letterati, quello dibremiano, con il Borsieri e il Pellico, e quello manzoniano col Berchet, il Visconti, il Torti. Ma diede significato ben piú ampio a quel titolo e impulso al giornale, rendendolo anzi possibile, la convergenza dei due gruppi in un ideale di generale utilità sociale e di universalità degli studi. Tale convergenza fu operata soprattutto dal Porro e dal Confalonieri, che estesero il programma dalle lettere alle scienze, economia, agraria, sociologia. Non può sfuggire il chiaro aggancio con posizioni perduranti nell’ambiente milanese e risalenti al «Caffè». Il giornale, del resto, fu subito ben individuato dalla censura per la sua coperta polemica antigovernativa e antiaustriaca, tartassato e sorvegliato e infine soppresso. Aggiungeremo solo che i piú dei suoi collaboratori ebbero piú tardi processi, prigione, esilio.

Dal punto di vista della polemica romantica, a parte un intervento del filosofo Gian Domenico Romagnosi che, proprio nello spirito della conciliazione, proponeva di eliminare l’uso dei termini classico e romantico e tentava di introdurre una concezione ilichiastica della letteratura, cioè di una considerazione della poesia rispetto alle diverse età delle nazioni (in un articolo apparso nel «Conciliatore» del 18 settembre 1818), il testo di maggior interesse del «Conciliatore» resta il saggio di Ermes Visconti, Idee elementari sulla poesia romantica, piú scolastico certo, ma forse per questo piú chiaro e determinato nelle sue proposte di poetica. Il Visconti avvertiva che il senso da dare alla parola romantico non aveva nulla a che fare con l’inglese secentesco romantic, equivalente semplicemente di romanzesco, mentre il suo giusto significato era quello che la lega alle province romanze, o romane in cui nacque la nuova letteratura. Romantico è, dunque, per lui sinonimo di moderno e quello romantico non è piú un «genere» ma un «sistema», i romantici sono opposti ai classici, i sostenitori del nuovo ai ripetitori dell’antico. E un concetto di poesia romantica, moderna, opposta a poesia classica, antica, ebbe Silvio Pellico, che del «Conciliatore» fu il direttore. Anch’egli, come il Borsieri, cercò un’interpretazione in chiave romantica delle grandi opere della letteratura romantica, dalla Commedia alle Rime del Petrarca al Furioso, alle tragedie alfieriane. E, nonché un chiaro programma, un’impostazione psicologica romantica egli diede alle sue tragedie, Francesca da Rimini, Eufemio da Messina, Ester d’Engaddi, per citarne alcune. Ma quel romanticismo, che qui non riusciva ad essere piú che stucchevolmente patetico, trovava poi nelle sue prose di memorie, Le mie prigioni, un risultato ben maggiore. Questo libretto, scritto nel ’32 quando il Pellico (nato a Saluzzo nel 1789, condannato al carcere a vita nel ’21, graziato nel ’30 e vissuto fino alla morte, 1854, a Torino) aveva rinunciato ad ogni partecipazione attiva alla vita politica e anche alla vita letteraria del suo tempo, è impregnato dei motivi piú intimi del Romanticismo: soprattutto una religiosità tormentosa, non pacifica ma conquistata giorno per giorno, ora per ora, nella lotta contro le proprie ribellioni, i propri sentimenti di affermazione personale, che danno un’impostazione drammatica all’opera in una prosa spoglia, in una narrazione scarna, intesa a mettere in evidenza quelle aspre battaglie con se stesso. Sotto questo profilo il libro, che generazioni di lettori intesero come una spietata denuncia dell’Austria e dei suoi sistemi di governo, acquista un sapore diverso, piú vero anche se meno eroico esteriormente e piú duramente sofferto nell’intimo.

Quello sopra disegnato, dunque, lo svolgimento e l’approdo della polemica in se stessa: approdo modesto, se non si considerasse l’effetto che la discussione ebbe nel chiarire posizioni diverse, ma tutte fortemente impregnate di essa, quali quella del Foscolo che, rifiutando il vero storico romantico e mostrando come la ribellione alle regole fosse ben anteriore al Romanticismo e risalisse al Parini e all’Alfieri, offriva però una linea di svolgimento della letteratura di cui critici e storici dell’intero corso del Romanticismo usufruiranno; quella del Leopardi che dalla polemica maturava la sua poetica del vero e del vago e in certa misura un atteggiamento protestatario dinanzi all’età presente, anticipo della sua protesta contro la storia e la vita; quella del Manzoni che interpretava le esigenze della poesia romantica nel suo spirito equilibrato e animato da un bisogno di verità autentica. Andrà inoltre considerato che, pur con tendenze diverse, talora opposte (basti pensare alle divergenze che determinava nello svolgimento romantico la diversità degli atteggiamenti religiosi, tanto che si è potuto parlare di un Romanticismo laico accanto ad un Romanticismo cristiano, o anche solo dei fondamenti filosofici, con un richiamo per un settore alla cultura illuministico-sensistico-materialistica, e per l’altro allo spiritualismo, di rado agganciato solidamente alla nuova filosofia idealistica), il primo esplodere del Romanticismo italiano lascerà durature tracce su tutta la cultura successiva, sulle sue realizzazioni e, prima, sui suoi slanci, sulle sue ansiose ricerche morali, spirituali, intellettuali e anche culturali, letterarie, critiche.

3. Giovanni Berchet

Come si è accennato, nelle contingenze di tutta la polemica la figura che prende maggior risalto per la decisione con cui formula le caratteristiche della «poetica» romantica, anche se ad un certo momento egli concordò col Di Breme che la formulazione di una poetica era inutile perché avrebbe finito necessariamente coll’essere messa nel mucchio delle cose vane come le poetiche classiche, fu Giovanni Berchet. Nato a Milano nel 1783, i primi documenti letterari che offerse furono le traduzioni di Gray e di Goldsmith (molto modesti alcuni componimenti giovanili come la satira I funerali e la visione I Visconti). La Lettera fu la vera rivelazione di lui; tra il ’18 e il ’19 fu assiduo nel «Conciliatore»; nel ’20 fu implicato nei processi contro i liberali e fu costretto all’esilio; trovò rifugio in Inghilterra, in Francia, in Belgio, in Germania; in questi anni nacque la sua scarsa poesia; tornò in Italia nel ’45 e nel ’48 prese parte attiva al governo provvisorio milanese; fu quindi deputato al parlamento torinese; morí nel 1851.

La Lettera, che si può considerare il capitale manifesto del Romanticismo italiano, è l’illustrazione, rivolta da Grisostomo al figlio che si trova in collegio, circa il modo in cui va considerata la poesia romantica: occasione è la traduzione di due ballate del poeta tedesco G.A. Bürger, Il cacciatore feroce e Leonora. Si divide in due parti, una polemica, distruttiva, e una costruttiva: segue una chiusa scherzosa in cui Grisostomo dichiara di aver parlato per assurdo per mostrare la mostruosità delle idee romantiche e la necessità di tenersi agli insegnamenti degli antichi e alla tradizione. Il Berchet da principio mette sotto accusa una cultura antiquata, ridotta a pura pedanteria, appoggiata esclusivamente all’autorità del dizionario e delle regole retoriche, bagaglio morto di intellettuali provinciali, dagli occhi e dalle orecchie chiuse alla vita, agli avvenimenti del mondo che li circonda. Non sono novità, e la vivacità che assumono queste accuse dipende dall’esser collegate alla seconda parte, quella in cui il Berchet enuncia i caratteri della nuova poesia: questa deve essere popolare, non diretta cioè agli ottentotti, com’egli pittorescamente s’esprime, a coloro insomma che per incultura o per analfabetismo non sono in grado di accostare la poesia, né ai parigini, i raffinati incapaci di sentire vivide emozioni, ma alla vasta categoria di persone in condizioni di muovere i propri interessi fantastici e intellettuali senza ricorrere alla falsità e agli schermi della pedanteria regolistica. Per eccitare i sentimenti di questi lettori i poeti devono loro offrire «cose nostre che ci circondano tuttodí», non cose «antiche altrui che a noi sono notificate per mezzo soltanto dei libri e della storia». «Fate di piacere al popolo vostro – egli esclama –; investigate l’animo di lui, pascetelo di pensieri e non di vento». Per raggiungere questi risultati i poeti dovranno procedere ad un rinnovamento degli strumenti espressivi, usare un linguaggio piú semplice, attuale, umano; inoltre dovranno proporre temi capaci di interessare e di educare, di suscitare pensieri e sentimenti informati al bene pubblico e generale.

Queste esigenze si ritrovano puntualmente nell’esercizio berchettiano di poeta e di traduttore. Come traduttore egli si rivolse a testi moderni e popolari, come Il curato di Wakefield di Goldsmith, Il bardo di Gray, le ballate di Bürger, il Romancero spagnolo; nel tradurre soddisfece l’esigenza di una poesia capace di eccitare la fantasia e la meditazione, rivolta ad un pubblico piú vasto e piú sensibile. A questa esigenza cercò di adeguare il linguaggio, fatto piú cordiale, schivo di preziosismi, aderente ai contenuti. Anche nella sua creazione poetica personale perseguí questi ideali: cosí nel poemetto I profughi di Parga del ’21 in cui fa narrare da un parganiota, scampato all’eccidio turco gettandosi in mare, ad un inglese che lo ha raccolto sulla propria nave i casi e la distruzione della sua patria (il parganiota rifiuterà poi la pietà e il pianto dell’inglese, i cui compatrioti hanno assistito immobili alla distruzione di Parga); cosí nelle Romanze, scritte tra il ’22 e il ’24, che prendono per la maggior parte argomento da vicende contemporanee come il Romito del Cenisio (apparso nel ’23), dove un viandante ricusa di scendere in Italia dopo aver sentito il lamento su di essa espresso da un esule, come Clarina (1822), dove una fanciulla piange l’esilio del giovane amato, come Il rimorso (1823), in cui una donna italiana sposata ad un austriaco è reietta da tutti col suo figliuolo e sente il rimorso della sua condizione, come anche le altre che hanno un’impostazione piú teatrale ed enfatica, Matilde, Giulia (unica eccezione Il trovatore, che delinea peraltro un tempo remotissimo con immagini presenti); cosí le Fantasie, scritte nel ’29, sorta di narrazione delle visioni, che un esule ha sul far del mattino, di momenti della storia del suo popolo ch’egli accompagna con la manifestazione dei moti del suo animo, tra avvilimento, slancio sentimentale, entusiasmo.

Dall’una all’altra di queste composizioni è indubbio che il possesso del proprio programma, della sua stessa voce poetica cresce nel Berchet, e se cadute, diseguaglianze, incertezze nella delineazione fantastica, toni sfasati nella ricerca espressiva e perfin lessicale accompagnano un po’ tutta la sua poesia, se insomma le difficoltà di inventare un linguaggio sempre e totalmente aderente ai contenuti romantici perdurano palesemente in lui, tuttavia va detto che i modi e i temi romantici, le visioni, le delineazioni di paesaggi, e poi l’insistenza sui sentimenti piú intimi e familiari, il tema dell’esilio soprattutto, hanno nella sua poesia sempre qualcosa di autentico, mostrano una singolare capacità di movimento, un impeto e un fermentare originali, ben sostenuti da una metrica di sicuro effetto musicale, di andamento popolare, interamente lirico o scanditamente epico. Nessuna compiacenza in lui, ma una forza diretta di rappresentazione oggettiva, una prima realizzazione di realismo romantico.